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Un esempio di cannibalismo umano: la spedizione di Sir John Franklin

Il cannibalismo umano, per quanto più raro rispetto a quello animale, è un fenomeno verificatosi più volte storicamente, in ogni parte del mondo. Solitamente lo si lega a disturbi mentali, determinati culti, o a carestie estreme. Fenomeni di cannibalismo sono stati documentati diverse volte in seguito ad eventi che hanno forzato gruppi ristretti di persone a sopravvivere in aree remote, con scarse o nulle riserve di cibo. Storicamente, si hanno testimonianze di cannibalismo tra esploratori, migranti, e naufraghi; di recente, vi sono ipotesi di fenomeni di questo tipo in seguito a tragici incidenti aerei.
Il cannibalismo di sopravvivenza segue generalmente una sequenza ben precisa. Le parti del corpo la cui rimozione richiede uno sforzo minore, come i muscoli più grandi e superficiali, vengono utilizzate per prime; se si necessita di ulteriori calorie, si ricorre allo smembramento del cadavere e alla rottura volontaria delle ossa al fine di estrarre il midollo osseo dalle cavità midollari e dal tessuto osseo spugnoso. Se inoltre il fenomeno avviene in un luogo freddo e secco, le particolari condizioni atmosferiche favoriranno la conservazione del corpo e un potenziale sostentamento per un periodo di tempo prolungato.
Uno dei casi storici di probabile cannibalismo, forse tra i più famosi, è quello della sfortunata spedizione navale britannica del 1845 capitanata da Sir John Franklin, che finì in tragedia, visto che nessuno dell'equipaggio ne tornò mai vivo.
Nel maggio del 1845, due navi, la HMS Erebus e la HMS Terror (HMS sta per Her Majesty's Ship, "Nave di Sua Maestà"), salparono dall'Inghilterra per una spedizione della Royal Navy verso l'Artico, sotto il comando di Sir John Franklin. Lo scopo del viaggio era mappare la rotta del Passaggio a Nord-Ovest, attraversando l'arcipelago artico canadese. 
Come si vede nella figura, l'equipaggio trascorse l'inverno del 1845-46 a Beechey Island; l'estate successiva si spostò verso sud e ovest in cerca del passaggio, e nel settembre 1846, le navi rimasero bloccate nel ghiaccio, a nord-ovest dell'isola di Re William.

Source: Wikipedia




Negli anni successivi alla tragica spedizione, evidenze di artefatti e resti umani e le testimonianze date da informatori Inuit indicavano che gli uomini di Franklin erano morti di fame, nella loro marcia lungo le coste occidentali e meridionali dell'isola di Re William e nella regione di Starvation Cove (la "Baia della Fame"), sull'adiacente terraferma. 
Le testimonianze degli Inuit del diciannovesimo secolo raccontano di fenomeni di cannibalismo tra gli uomini di Franklin, negli ultimi estremi momenti della spedizione. Tali dichiarazioni erano controverse al tempo, ma furono supportate negli anni 1980 e '90, quando sui resti umani recuperati dai siti della spedizione sull'isola di Re William vennero osservati segni inconfondibili di tagli effettuati con un coltello. Delle 304 ossa ritrovate su un isolotto di Erebus Bay, ben 92 mostravano segni di taglio, che indicano rimozione della carne e probabile smembramento. Nel 2013 vennero ritrovati e recuperati altri resti, sempre in Erebus Bay, e anche in questo caso diverse ossa riportavano segni che portano a ipotizzare fenomeni di cannibalismo umano.

In un recentissimo studio, effettuato dagli antropologi Simon Mays e Owen Beattie, sono state analizzate le ossa ritrovate nel 1981/82 nei siti di Booth Point ed Erebus Bay (entrambi nell'isola di Re William), durante delle indagini archeologiche effettuate lungo la rotta del viaggio finale degli uomini di Franklin (ora conservate nel Canadian Museum of History di Ottawa).
A conferma del fatto che quelli fossero gli stessi luoghi dove l'equipaggio era stato, sono stati ritrovati oggetti Europei/Inglesi dell'epoca, una barca, e diversi strumenti nautici; inoltre, la morfologia dei crani è consistente con quella degli individui di discendenza europea. 
Nello studio sono stati esaminati i segni di taglio, le fratture post-mortem e la presenza del cosiddetto "pot polish", ovvero di aree particolarmente lucide e smussate visibili su un osso, che si creano quando questo viene abraso dalla superficie interna di una pentola, durante la bollitura per l'estrazione del midollo. I segni di taglio suggeriscono cannibalismo in generale, mentre alcune fratture e il "pot polish" sono specificamente legati all'estrazione del midollo, quindi alla forma più estrema di cannibalismo. 

I segni di taglio lasciati da un coltello sono identificabili come solchi allungati a forma di V o U; essi possono mostrare striature parallele e longitudinali lungo il solco principale:

Segni di tagli su un osso animale. Source: Victorian Museum of Natural History

Per quanto riguarda le fratture/rotture, nelle ossa archeologiche le rotture ossee recenti sono caratterizzate da bordi puliti e non modificati dagli agenti atmosferici. Invece, in un osso rotto subito dopo la morte dell'individuo, o comunque non poco tempo prima della sua scoperta, i bordi della frattura mostrano gli stessi cambiamenti tafonomici del resto della superficie corticale dell'osso. Le proprietà meccaniche di un osso fresco sono caratterizzate da elasticità e plasticità, in virtù del contenuto organico, costituito in gran parte da collagene. In seguito alla degradazione del collagene, quando l'osso diventa secco, la modalità di frattura è differente. Nelle ossa lunghe, l'osso fresco tende a rompersi con una frattura curvilinea, mentre l'osso secco tende a mostrare rotture lineari o a gradini. Nell'osso fresco, la superficie rotta di una frattura è di solito liscia con bordi taglienti, mentre nell'osso secco essa ha un aspetto ruvido. Quando un osso fresco si frattura in seguito al colpo di un percussore di pietra o simili, si può vedere chiaramente il segno dell'impatto, che solitamente è conico. Nonostante questi criteri non siano assoluti, restano comunque di riferimento per valutare se determinate rotture ossee sono avvenute quando l'osso era fresco (come ci si aspetterebbe se è stato usato come fonte di midollo), o per via dei normali processi tafonomici sull'osso secco.

Esempio di frattura di un osso secco, che ha perso la sua componente organica. Source: Antiquity Journal

Il materiale di Booth Point comprende resti di un cranio e sette ossa lunghe (una tibia sinistra, una fibula sinistra, un femore destro, un radio sinistro e uno destro, un omero sinistro e uno destro). La mancanza di duplicazione degli elementi e consistenze anatomiche in termini di misure e robustezza suggeriscono che i resti probabilmente appartengono ad un unico individuo. Il materiale di Erebus Bay comprende resti di sette ossa lunghe (due tibie destre, due femori destri, una tibia sinistra e una destra, un'ulna destra), due scapole sinistre, una costola, un metatarso, un metacarpo, una vertebra, e 14 ossa dei piedi articolate; le ossa rappresentano almeno due individui.

Quattro ossa lunghe, una fibula e tre omeri, mostrano fratture diafisarie curvilinee, con superfici di rottura lisce e con bordi netti. Queste caratteristiche suggerirebbero che le fratture siano avvenute quando le ossa erano ancora fresche. Tuttavia, nonostante queste fratture siano consistenti con la rottura deliberata delle ossa per l'estrazione del midollo, un'origine tafonomica non può essere completamente esclusa. Va infatti considerato che i resti ossei possono mantenere proprietà meccaniche simili a quelle delle ossa fresche anche diversi mesi dopo la morte, se in condizioni di freddo tali da rallentarne la degradazione; quindi, in un ambiente come quello artico in cui le ossa sono state ritrovate, va valutato anche uno scenario di questo tipo. Oppure, il calpestamento da parte di grossi animali, lo scongelamento o il movimento dei ghiacci possono aver prodotto tali fratture prima che le ossa perdessero la loro naturale elasticità con il decadimento della loro componente organica.   
Un femore e una tibia mostrano estremità lucide e levigate. Queste superfici presentano gli stessi cambiamenti del resto dell'osso, a indicare che il processo di "lucidatura e levigatura" non ha origini recenti. Siccome le superfici lucide sono anche fratturate, la lucidatura deve essere avvenuta in seguito alla rottura delle ossa, che risulta nella rimozione delle estremità. Si potrebbe ipotizzare che anche i processi tafonomici possano essere la causa della lucidatura, perché le ossa sono state ritrovate parzialmente esposte; tuttavia, l'erosione causata dal vento solitamente non produce un aspetto "lucidato", ma decolorazione, rottura e/o desquamazione dell'osso. Il colore scuro e la superifcie ben preservata delle parti lucidate indica che esse erano coperte da sedimenti. L'abrasione da sedimenti, dovuta a calpestamento, ad una sepoltura non profonda, o a pedoturbazione (rimescolamento dei materiali nel suolo), può produrre lucidatura. Tuttavia, quando ciò accade la superficie lucida tende ad essere generalmente estesa a tutto l'osso, mentre la natura localizzata della lucidatura in queste ossa suggerisce che l'abrasione da sedimenti non è una causa probabile. Anche la masticazione da parte di canidi può produrre bordi in qualche modo lucidi, ma non ci sono segni di masticazione sulle estremità, e sembra inoltre improbabile che degli animali possano produrre aree precisamente circoscritte di lucidatura, come si vede su queste ossa, senza neanche lasciare i segni dei denti. 
Mays e Beattie suggeriscono dunque che la "lucidatura" visibile sulle ossa in esame sia antropogenica, più precisamente dovuta al "pot polish". In studi passati, l'effetto del pot polish è stato riprodotto in alcuni esperimenti, riscaldando in acqua frammenti di osso privi di tessuto molle all'interno di contenitori metallici e ceramici (White, 1992; Dixon et al., 2010). In archeologia, il fenomeno è stato osservato sia nelle ossa animali che sono state usate per l'estrazione del midollo osseo, che nei resti umani nei casi certi di cannibalismo. Venti minuti di bollitura sono sufficienti a produrre tali effetti (Kopp & Graham, 2011). 
Quindi, la rottura e la lucidatura delle estremità delle ossa esaminate si spiegano se queste ossa sono state volontariamente rotte per rimuoverne le estremità e aprire la cavità midollare. Negli stessi siti sono stati ritrovati recipienti di dimensioni che avrebbero permesso di cucinare anche ossa delle dimensioni di quelle di un uomo adulto.

La combinazione di questi risultati con quelli di studi precedenti (Keenleyside et al., 1997; Stenton et al., 2015) indica che dei 418 elementi scheletrici, che rappresentano un minimo di 17 individui, ritrovati lungo la rotta della marcia finale di Franklin, ben 102 (24%, un minimo di 7 individui) mostrano segni di modificazione antropogenica: tagli, rotture volontarie post-mortem e "pot polish", tutti coerenti con il cannibalismo. I segni di tagli suggeriscono rimozione di carne umana e possibile smembramento. La lucidatura e le fratture suggeriscono una più complessa elaborazione del cadavere, che consisteva in una rottura deliberata delle ossa e nella bollitura delle stesse per facilitare l'estrazione del midollo.
Questi risultati confermano che i membri dell'equipaggio di Sir John Franklin, probabilmente negli ultimi, strazianti momenti della sfortunata spedizione, hanno praticato cannibalismo.



Fonti:
- Dixon, K.J., Novak, S.A., Robbins, G., Schablitsky, J.M., Scott, G.R., Tasa, G.L.., 2010. Men, women and children starving: archaeology of the Donner Family Camp. American Antiquity, 75: 627-656
- Keenleyside, A., Bertulli, M., Fricke, H.C., 1997. The final days of the Franklin expedition: new skeletal evidence. Arctic, 50: 36-46
- Kopp, D., Graham, D., 2011. Into the fire: examining the manifestation of pot polish. American Journal of Physical Anthropology, Suppl. 52: 190-191
- Mays, S., Beattie, O., 2015. Evidence for end-stage cannibalism on Sir John Franklin's last expedition to the Arctic, 1845. International Journal of Osteoarchaeology, article published online, doi 10.1002/oa.2479  
- Stenton, D.R., Keenleyside, A., Park, RW., 2015. The “Boat Place” burial: new skeletal evidence from the 1845 Franklin expedition. Arctic, 68: 32-44
- White, T.D., 1992. Prehistoric Cannibalism at Mancos 5MTUMR-2346. Princeton University Press.



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